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sabato 20 aprile 2024

NEVER MORE, MAI PIU'

 

RWANDA 1994, GAZA 2023 /2024

Foto di copertina di Les Blessures du Silence **
 

Il 6 aprile scorso si è commemorato il trentennale dall’inizio del genocidio in Rwanda, paese della Regione dei Grandi Laghi dell’Africa centrale, durante il quale una cifra oscillante tra 800.000 e un milione di persone della minoranza Tutsi[1] e di Hutu moderati furono trucidate nello spazio di circa 3 mesi da esercito e da milizie, la maggior parte fatte a pezzi con machete. Milioni di cittadini rwandesi si sono scagliati contro i loro vicini, i loro stessi parenti e amici, in un’orgia di violenza assassina. Che era stata preparata per anni.

Si è di nuovo discusso del ruolo, della pesante responsabilità della Francia negli eccidi, dato l’appoggio indiscutibile fornito da questo paese al regime al potere che il genocidio aveva pianificato ben prima che si presentasse l’occasione per compierlo, ma non delle responsabilità di altri essenziali attori internazionali. Ed è paradossale e tragico che tale scadenza sia cronologicamente parallela a un altro genocidio in fieri, o a quel che gli assomiglia molto a seconda delle sensibilità, in Palestina, e che come in Rwanda nessuna istanza internazionale né nazionale riesca a impedire che si verifichi, e in modo molto più mediatizzato che nel 1994.

Pur nella estrema differenza delle circostanze, della storia, dei protagonisti, dei continenti, quello che colpisce è la cecità perversa dei guardiani della legalità internazionale, in entrambi i casi, nei confronti di tutti i segni premonitori delle due catastrofi, l’una pregressa e in via di faticosa risoluzione, l’altra presente e sanguinante davanti agli occhi di tutti oggi, e l’incapacità (o meglio la non volontà) sia di prevenirle che di fermarle. Il caso del Rwanda è ormai storia ma le responsabilità/complicità faticano ad emergere. Il presidente Macron ha riconosciuto nel 2021 la “responsabilità schiacciante” della Francia nel genocidio rwandese. Ci sono state varie commissioni di inchiesta[2], e pochi giorni fa, con formula assai poco chiara e contestata, Macron ha ripetuto che la Francia non ha saputo né voluto fermare il genocidio rwandese. Ma si è ben guardato dal ricordare l’appoggio di anni a un regime che manifestava apertamente l’intenzione di volerlo compiere, appoggio continuato oltre l’inizio dei massacri anche con l’invio di armi a chi uccideva migliaia di persone al giorno[3]. Per quanto riguarda la situazione attuale in Palestina, a Gaza soprattutto ma anche in Cisgiordania, la pressione di innumerevoli manifestazioni, articoli, denunce, istanze internazionali come la Corte di Giustizia internazionale, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, le dichiarazioni del Segretario Generale ONU, nonostante i palesi crimini di guerra commessi da Israele e dalle sue forze armate, inclusa la morte per fame, non riesce a prevalere sulla scellerata volontà di annientamento di un intero popolo. Volontà di chi? Non solo di Israele certamente. L’impotenza ONU e l’ipocrisia USA, la connivenza dei paesi arabi nonostante gli “aiuti alimentari” della Giordania, sono capolavori desolanti di sfingi di pietra, come la paralisi europea, tutti volenterosi complici del primo genocidio in corso d’opera del ventunesimo secolo. Trogloditi cechi e sordi con l’intelligenza artificiale e le bombe nucleari calde sotto il culo. Nel frattempo la Terra può tranquillamente continuare a bruciare.

 

Rwanda 1994

La sera del 6 aprile 1994 il presidente del Rwanda Habyarimana e il presidente del Burundi, Ntaryamira, entrambi Hutu, stanno ritornando in Rwanda dopo un vertice congiunto nell’ambito dei negoziati con gli avversari in armi del Fronte Patriottico Rwandese (RPF), Tutsi, che preme alla frontiera nord. Poco prima dell’atterraggio nella capitale rwandese a Kigali, dei razzi abbattono l’aereo. Quella sera stessa inizia nel paese la caccia della maggioranza Hutu ai nemici interni, chiamati “il serpente”, “le blatte”; così sono definiti i Tutsi e gli Hutu considerati loro amici, e quindi loro complici. La radio diffonde subito la notizia, che corre di bocca in bocca, e gli Hutu estremisti cominciano a formare barriere stradali per bloccare chi sembra essere un Tutsi[4]. La follia omicida dilaga in tutto il paese. Così la descrive Lindsey Hilsum, una giornalista che si trova in Rwanda, su The Guardian del 7 aprile:” La capitale rwandese è precipitata nel caos ieri quando truppe dell’esercito, guardie presidenziali e gendarmi sono dilagati nei sobborghi (di Kigali) e hanno ucciso il primo ministro[5], membri della forza di pace dell’ONU e moltissimi civili. Bande di soldati e giovani hanno preso in ostaggio politici dell’opposizione e ucciso membri della minoranza Tutsi con bastoni, machete, coltelli o armi da fuoco…. Quasi tutti sono rimasti a casa ieri sera per lo spavento. Ma centinaia di Tutsi atterriti cercavano luoghi sicuri dove rifugiarsi, alcuni sono andati allo stadio dove ha sede la forza di pace delle Nazioni Unite” Tra aprile e luglio quasi un milione di Tutsi e Hutu moderati saranno assassinati.[6]

Il titolo di un libro sul genocidio rwandese del giornalista statunitense Philip Gourevitch è: “Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie”. Così inizia una lettera che dei pastori Tutsi protestanti, assediati in una chiesa, inviarono ai loro superiori Hutu. In tutti questi anni la frase atrocemente burocratica mi è rimasta fitta in mente.[7] Molti massacri avvennero dentro delle chiese.

La sera del 6 aprile del 1994 l’infermiera professionale Tutsi Yolande Mukagasana chiude come sempre tranquillamente il suo ambulatorio medico su una collina, in un piccolo centro non lontano dalla capitale e si avvia verso casa. Si stupisce quando i vicini che la mattina stessa le venivano incontro sorridendo e la salutavano calorosamente non rispondono più al suo saluto, anzi distolgono lo sguardo da lei. Quando arriva a casa capisce il perché: il marito spaventato le dice che il presidente Habyarimana è stato assassinato, il suo aereo è stato abbattuto. Esclama: “Sono tre anni che tutti conoscono i piani di Habyarimana. Sono otto mesi che la radio incita gli Hutu a massacrare i Tutsi…”[8]. Tutti sapevano che si tramava la “soluzione finale”, ma nessuno di coloro in grado di prevenirla voleva sapere.

Sommario flash back storico. Il Rwanda come il Burundi fa parte della regione dei Grandi Laghi, nel cuore dell’Africa centrale, ed ha una storia e una cultura comune a tutta la regione Banyarwanda che comprende oltre al Burundi anche l’Uganda e parte della attuale RDC, allora Zaire. Comunità di pastori e di agricoltori coesistevano sin dal 1500 in una economia complementare, in un contesto pre-statale. In Rwanda la società era organizzata in clan segmentati secondo un criterio occupazionale, a seconda del ceto sociale e le capacità economiche. Tra i tre gruppi principali i Tutsi erano prevalentemente pastori, gli Hutu agricoltori e i Twa esercitavano mestieri vari, ma c’era fluidità tra questi segmenti. Un Hutu che acquistava bestiame e diventava più ricco veniva assimilato alla categoria dei Tutsi, e viceversa. I Twa erano confinati a ruoli sociali più modesti, ma non esisteva nessun compartimento stagno, i matrimoni misti erano diffusi[9]. Le cose cominciano a cambiare nel primo novecento, il re contribuisce a etnicizzare le categorie sociali. Con la colonizzazione belga dal 1916 la distinzione etnica si accentua e sclerotizza finché si introduce nel 1933 l’obbligatorietà della carte di identità dove l’appartenenza ad un gruppo viene ufficializzata e resa permanente, come caratteristica innata, quasi biologica, etichetta inamovibile.


I colonizzatori belgi architettano una provenienza straniera, hamitica, dei Tutsi, rendendoli quasi degli invasori nel paese degli autoctoni Hutu, e li privilegiano negli impieghi e nelle carriere, cosicché il fossato sociale si approfondisce, le rivalità e le invidie si moltiplicano. Fino ad arrivare al 1959, quando esplodono violentemente nella “rivoluzione” Hutu, un massacro che crea migliaia di rifugiati Tutsi che dilagano nei paesi vicini, prevalentemente in Uganda. Nasce il revanscismo Tutsi. Nonostante episodi anche successivi di violenza, in Rwanda la convivenza e la complementarità sociale[10] si installano di nuovo; i Tutsi sono una minoranza nel paese che entra nel girone politico francese negli anni ‘70/’80. Il presidente francese Mitterand è molto diffidente nei confronti dell’influenza anglofona (vedi Uganda e operazione “Restore Hope” USA in Somalia) e la teme, si vuole tenere stretta la sua zona francofona. Nei primi anni 1990 si prepara il terreno per l’esecuzione dell’eccidio[11]. Il presidente Habyarimana è ostaggio di estremisti Hutu che vogliono tutto il potere e sviluppano quella che si chiamerà ideologia dell’hutu power a partire dallo stretto circolo presidenziale, in kinyarwanda akazu (piccola casa), dove primeggia sua moglie Agathe. La formazione del Fronte Patriottico Rwandese (RPF) nel 1988, composto dai Tutsi espulsi nel 1959 che vogliono ritornare nel loro paese e i primi scontri armati alla frontiera nord acuiscono le paure di invasione degli Hutu. Agli scontri si alternano incontri e trattative tra il 1990 e il 1993 che sfociano negli accordi di Arusha dell’agosto del 1993 in vista di un governo comune.  Nel 1992 ci sono gravi scontri etnici a Bugesera, 300 morti, scontri che si ripetono nel nord ovest nel gennaio del 1993, con altre centinaia di morti. Ci sono fosse comuni in vari luoghi del paese (P. Gourevitch, op.cit.). La macchina del genocidio si è già messa in moto nonostante gli accordi al vertice: si importano sempre più armi, addirittura spicca una colossale importazione di machete dalla Cina che non può non essere notata. L’ONU decide di inviare una missione di interposizione, la MINUAR, di 3000 uomini. Nel luglio del 1993 si costituisce e va in onda quotidianamente la Radio TV Libera Mille Colline che sputa veleno quotidiano contro i Tutsi, ormai bollati come scarafaggi e serpenti, quinta colonna del RPF. La Francia continua imperterrita il suo appoggio al regime. Nel dicembre 1993, 600 soldati del RPF arrivano in Rwanda nel quadro degli accordi di Arusha.

In questo contesto incandescente, la caduta dell’aereo il 6 aprile del 1994 scatena i massacri. A tutt’oggi non c’è chiarezza sui responsabili dell’attacco all’aereo.

Torniamo all’infermiera Tutsi Yolande Mukagasana la sera del 6 aprile e a suo marito. Yolande capisce immediatamente il pericolo, cerca aiuto, telefona alla missione ONU, la MINUAR. Cosa rispondono i peace-keepers, i pacieri? “Non possiamo fare niente per lei signora. Ci scusi.”[12] Yolande prova a chiamare l’ambasciata degli Stati Uniti, poi quella del Belgio, stessa risposta, e così alla Croce Rossa Internazionale. La nunziatura le sbatte il telefono in faccia.  Nei giorni immediatamente successivi la Francia invierà la missione Amaryllis per evacuare cooperanti e personale straniero, ma imbarcherà anche 300 Rwandesi, tra i quali membri della famiglia del presidente ucciso e…il direttore della Radio TV libera Mille Colline, che aveva attivamente contribuito a coltivare l’odio verso i Tutsi. [13] Tra i salvati c’è la moglie Agathe del presidente ucciso Habyarimana, attivissima nell’akazu[14]. Seguirà in giugno la missione Turquoise, ufficialmente per proteggere i Tutsi, una missione con molte ombre. Yolande Mukagasana si salverà grazie al suo estremo coraggio, alla sua resistenza fisica e alla protezione infine di una conoscente Hutu che a rischio della sua vita la nasconde in casa, e una volta salva, mentre tutta la sua famiglia è stata sterminata, dedicherà la sua vita alla testimonianza dell’orrore vissuto e alla rinascita del suo paese verso una faticosa riconciliazione. I cosiddetti gachacha, tribunali popolari nei quali vittime e carnefici si sono incontrati e i carnefici hanno confessato i loro crimini, hanno contribuito a ritrovare una vita comune all’insegna della memoria. Fu istituito un Tribunale internazionale ad hoc, come per la guerra in Jugoslavia, per rintracciare e processare i responsabili. La caccia durerà per molti anni, fino a tempi recenti.


Ci sono state innumerevoli pubblicazioni sul genocidio rwandese, ma che cosa è sostanzialmente cambiato oggi? Che cosa ha insegnato? Anche per quel che riguarda la Palestina, quante tappe, quanti segnali di una situazione che stava degenerando? Come è possibile che una pentola a pressione lasciata chiusa non scoppi? Dagli accordi di Oslo del 1993 in poi c’è stata una lenta ma progressiva discesa agli inferi. Quante risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono state ignorate da Israele a partire dalla 194 sul diritto dei profughi palestinesi a ritornare alla loro terra? Dopo la guerra del 1967 l’annessione a Israele della Cisgiordania, del Golan e di Gerusalemme Est è stata dichiarata illegale. Israele ha sabotato ripetutamente il cosiddetto processo di pace post Oslo. Dopo lo sgombero delle colonie israeliane a Gaza nel 2005 tutta la Striscia è stata strangolata economicamente socialmente culturalmente, fino a trasformarsi in tutto e per tutto, a partire dal 2007, in una prigione a cielo aperto. La Cisgiordania è diventata una gruviera punteggiata di colonie illegali israeliane, tranciata dal muro della vergogna, totalmente illegale. Tutto ciò sotto gli occhi benevoli degli USA, che foraggia a suon di miliardi il suo protetto, testa di ponte occidentale in Medio Oriente, tra le flebili, inudibili obiezioni e la sostanziale acquiescenza della UE.

Il 7 ottobre 2023 il tappo è saltato con una strage che si poteva e doveva prevenire e evitare. Il New York Times nel dicembre del 2023 ha pubblicato un articolo in cui si afferma che Israele era stato informato di un piano di incursione di Hamas[15] ma che non prese in considerazione l’eventualità. E’ credibile questa leggerezza? E’ possibile invece ipotizzare che i servizi segreti israeliani non l’abbiano voluta impedire per “approfittare” dell’occasione e sbarazzarsi una volta per tutte dei palestinesi e non solo di Hamas? L’aveva sospettato Richard Falk su Middle East Eye net[16] quando scriveva a fine ottobre che era probabile che Israele avesse visto arrivare l’attacco. Con il governo estremista di Netanyahu composto da coloni che risiedono in città illegalmente nate in terra palestinese si erano moltiplicati gli attacchi in Cisgiordania. Chi ha alzato un dito per proteggere la Palestina dal disastro prima e dopo il 7 ottobre 2023? L’ultima Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU del 25 marzo scorso che chiede l’immediato cessate il fuoco senza realmente esigerlo ne sigilla l’assoluta impotenza: carta straccia. Come è impotente l’iniziativa dell’Africa del Sud verso la Corte internazionale di giustizia. Un castello di norme, convenzioni internazionali, dichiarazioni di diritti, carta straccia. Si veda l’articolo di Peter Beinart su Jewish Currents del 19 aprile 2023[17]. Il sottotitolo recita: “Il desiderio di espulsione (dei palestinesi) è diffuso nella società e nella politica israeliana. Ignorare i segnali premonitori equivale ad abdicare alle proprie responsabilità”.

Abdicare e ignorare, è il naufragio della civiltà, il ritorno dell’homo homini lupus. "Presto, pensate come sia possibile, una fine migliore ci vuole, è indispensabile", dice B. Brecht.


 ** Tutte le foto di questo articolo sono tratte dal libro di Yolande Mukagasana" Les Blessures du Silence"(Le ferite del silenzio), foto di Alain Kazinierakis, Actes Sud, 2001. Sottotitolo: Testimonianze dal genocidio in Rwanda. Yolande sostiene che la confessione e la testimonianza possono facilitare il difficile ritorno alla convivenza di vittime e carnefici e forse il perdono.



[1] Il significato e le implicazioni di questi due termini sarà chiarito più avanti

[2] La Commissione Duclert nel marzo 2021 aveva concluso che la Francia era stata “responsabile ma non complice”. https://www.liberation.fr/international/rwanda-des-responsabilites-lourdes-et-accablantes-de-la-france-dans-le-genocide-des-tutsis-20210326_M434ITJXA5HBHHK5MKAOAURINQ/

[3] ..”Intanto, secondo un militare belga, la vendita di armi francesi all’esercito del Rwanda sarebbe continuata anche dopo il 6 aprile”, in: ”Grida dal silenzio delle colline rwandesi” di Giampaolo Calchi Novati, Il Manifesto, 17 gennaio 1999.

[4] L’immagine stereotipata del Tutsi uomo o donna che sia è di una persona alta, snella, magra, dai lineamenti più fini e dolci degli Hutu.

[5] Vengono uccisi i 10 soldati belgi della MINUAR che proteggevano il primo ministro, il Belgio ritirerà le sue forze. I 600 soldati del RPF lasciano la loro sede.

[6] https://www.hmd.org.uk/resource/6-april-1994-the-rwandan-presidents-plane-is-shot-down/

[7]  Philip Gourevitch, Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie, Einaudi, 1998

[8] Yolande Mukagasana, La morte non mi ha voluta, edizioni la meridiana, 1998.

[9] Famiglie miste erano numerosissime anche nel 1994.

[10] Si tenga presente anche che la pressione demografica è notevole, la disponibilità di terra agricola è sidotta.

[11][11] Su Le Figaro del 22 giugno 1994 si cita una fonte bene informata secondo la quale le consegne di materiale militare al Rwanda ammontano a 7 milioni di franchi francesi nel 1991,14 milioni nel 1992 e 7 milioni nel 1993. Politique Africaine n.55, ottobre 1994, nota 15, p.123.

[12] Op. cit, p.22

[13] https://international.blogs.ouest-france.fr/archive/2014/04/07/rwanda-genocide-hutu-tutsi-11536.html

[14] https://en.wikipedia.org/wiki/Agathe_Habyarimana

[15] https://www.nytimes.com/2023/11/30/world/middleeast/israel-hamas-attack-intelligence.html

[17] https://jewishcurrents.org/could-israel-carry-out-another-nakba

 

sabato 23 marzo 2024

SURINAME: IL VIAGGIO POSSIBILE E IL VIAGGIO REALE

 

SURINAME, UN PAESE DIFFICILE DA SCOPRIRE

Donne sul fiume Suriname vicino Anaula
 

Quando a chi me lo chiedeva dicevo che sarei partita per il Suriname, mi pare che non una persona non reagisse con domande: dove sta, che paese è, e simili. Almeno in Italia, non è certamente una meta frequentata né conosciuta. Le poche pagine di una guida del Sud America comprata quasi dieci anni fa non mi hanno fornito ragguagli sufficienti, né congrui con l’attuale stato del paese. L’agenzia di viaggi che mi ha prenotato il viaggio, un albergo per la sosta notturna/cambio aereo ad Amsterdam (che una volta sarebbe stato certamente a carico della compagnia, come sperimentato negli anni ’80) e quattro notti in un appartamento (che si è rivelato una fregatura) non ne sapeva nulla, contribuendo così ad un arrivo che per poco non è stato disastroso. E a distanza di un mese dal ritorno mi rendo conto che avrei dovuto preparare un viaggio simile con molta più pazienza e precisione, perfino guardando meglio la carta geografica, perché con deprecabile sciatteria avevo collocato la capitale Paramaribo vicinissima all’oceano, mentre si trova sul fiume Suriname, all’inizio di un estuario in cui confluisce un altro fiume da est, il Commewijne, e si trova a 15 km circa dall’oceano Atlantico. E, data la relativa vicinanza alle isole del Caribe, Martinica e Guadalupa, dove la popolazione e l’aria stessa vibrano di vitalità e gioia di vivere a dispetto di tutte le difficoltà, assimilavo indebitamente anche il Suriname al medesimo girone. Tutto sbagliato! Le mie percezioni in loco, in poco più di un mese, sono state quasi agli antipodi, limitate purtroppo alla sola capitale e dintorni, e a due sole escursioni, una breve, di un giorno, l’altra di tre giorni. E le descrizioni di mirabolanti foreste pluviali primarie abitate da puma, formichieri e armadilli giganti, giaguari, da smaglianti volatili rosso fuoco, i piccoli canali dove si può nuotare in tutta sicurezza, sono rimasti quel che erano prima di partire, evocazioni di realtà descritte sulla guida e poi immaginate.

Central Nature Reserve, Suriname (foto non mia)

Ma tutto ciò non solo a causa della mia deplorevole leggerezza, del mio rifiuto congenito di approfondire ex ante le caratteristiche del paese da visitare per il timore di rovinarmi il gusto della scoperta, per inventare il viaggio facendolo, strategia che per anni aveva funzionato, In questo caso non ho fatto tombola. Il Suriname è attualmente nel mezzo di una forte crisi economica, ha un debito estero molto alto, ha avuto una storia di colpi di Stato militari complicata dopo l’indipendenza del 1975, e un sistema bancario legato visceralmente alla ex colonia, per cui solo una Banca accetta  Mastercard internazionali (come la mia) per concedere cash, e bisogna cercare con il lumicino una agenzia di viaggi organizzati (abbastanza difficile muoversi da soli, direi impossibile se non si hanno 20/30 anni) che accetti carte bancarie straniere. La mia impressione girando per strada è stata di visi mesti, quasi sfuggenti, di una cortesia quasi sempre priva di quell'animazione, quel calore che si percepiscono per esempio in tanti paesi africani e altrove. Il mix etnico è notevole peraltro, e molto interessante, anche se ho potuto esplorarlo ben poco.Il gentile autista della Guaiana ex britannica ha riassunto lapidariamente: "you have come to the wrong country at the wrong moment" (sei venuta nel paese sbagliato nel momento sbagliato).

Edificio coloniale in riparazione, Paramaribo

Questa ex colonia olandese è incastrata tra Guaiana ex britannica a nord e Guaiana francese, attualmente ancora dipartimento francese, a sud, e fa parte di quel che in Sudamerica si designano come “Le Guaiane”, collettivamente. Il nome Guaiana sembra significhi “terra d’acqua”. E certamente il Suriname è un reticolo di fiumi e canali laterali, per lo più navigabili, con due pittoresche catene montane difficilmente raggiungibili dai comuni mortali, ma a causa della recente diminuzione della piovosità alcuni canali non sono percorribili da canoe che non siano poco più di gusci. Per cui addio a Bigi Pan, che era in febbraio preclusa per il basso livello dell’acqua dei canali. Addio anche alla Riserva naturale centrale, difficile da raggiungere e ancor più da affrontare, con soggiorni di vari giorni e notti, molto cari, in capanne in villaggi amerindi o di Maroons, discendenti di schiavi fuggiti dalle piantagioni: la Fondazione per la Conservazione della Natura non organizza più questi viaggi, e un’altra fondazione, anch’essa raccomandata dalla guida, non ha dato seguito alla mia richiesta di informazioni più dettagliate. La mia Mastercard prepagata è stata accettata per le due sole escursioni fatte, una volta con una “penale” di vari euro, con difficoltà. Non ho trovato ristoranti che accettassero il mio bancomat (Mastercard), un supermercato ha accettato la Visa con un cambio indegno e con tassa. 

Cattedrale SS Pietro e Paolo,Paramaribo, in riparazione

Ho trovato un buon alloggio grazie alla fortuna sfacciata di avere, all’arrivo all’aeroporto, l’accoglienza insperata della direttrice dell’Ufficio Turistico del Suriname. Nancy mi ha offerto il suo aiuto dandomi un passaggio in auto per la struttura che avevo prenotato tramite l’agenzia di viaggio italiana. Avrebbe dovuto essere un complesso di appartamenti dotati di ogni confort (Happy Holidays!). Ci si è presentato un palazzotto grigio cemento, sul bordo della strada piena di traffico verso l’aeroporto, lontano almeno 20 km dalla capitale Paramaribo. Nessuno ha risposto alla scampanellata al cancello, e mentre ci guardavamo interdette un tassista in attesa di clienti ci ha consigliato di rivolgerci a una villetta vicina. Altro cancello, altro campanello: dopo qualche minuto è apparsa su una terrazza una vecchietta in carrozzella, che si è prontamente ritirata dopo un’occhiata. Perplessità dissipata dall’arrivo, vari minuti dopo, di una ragazzina che ci ha avvisato che il proprietario era in Olanda, e che lei mi poteva solo dare le chiavi dell’appartamento. Intorno intenso traffico, un’officina, casette tristi e cadenti, tetti di alluminio. La direttrice del Tourist Board mi ha subito sconsigliato di restare là, la zona era tutt’altro che sicura. Così scampata alla trappola imprevista sono atterrata in una guesthouse ben più vicina alla capitale, con un grazioso giardino e una piscina di piccole dimensioni ma ben curata, dove sono rimasta all’ancora per tutta la durata del mio soggiorno non fidandomi a cambiare.

Fiume Commewijine

 La storia del Suriname è quella di una colonia olandese meno pregiata della ben più ricca e immensa Indonesia. E’ stata ceduta dalla potenza coloniale britannica ai Paesi Bassi in cambio della città di Nuova Amsterdam, poi New York City, nella seconda metà del 1600. I primi coloni stanziali olandesi arrivarono dal Brasile e crearono piantagioni principalmente di canna da zucchero, poi cotone, cacao, caffè e legname, con manodopera di schiavi di origine africana occidentale, fino a metà ottocento. I primi olandesi europei arrivarono anche loro a metà ottocento, quando furono “importati” i primi cinesi da Java come”lavoratori a contratto”(indentured labour), ancora lavoro schiavistico di fatto se non di nome, e abitanti dell’isola portoghese di Madeira. Seguirono a ondate successive lavoratori indonesiani, giavanesi soprattutto, indiani (chiamati indostani) e libanesi.

Foto al museo di Fort Zeelandia

 La schiavitù fu abolita nel 1863, ma il lavoro nelle piantagioni pagato una miseria si protrasse a lungo. Ho ricevuto da una ricercatrice olandese, dottoranda, che sta attualmente presentando all’Università di Amsterdam il risultato di decenni di ricerche sul campo e interviste, la foto di un uomo, discendente da antichi “lavoratori a contratto”, che ancora vive nella baracca di nonni o bisnonni di 3 metri quadrati. E’ stata lei a dirmi che a tutt’oggi non esiste nessun serio studio sulla colonizzazione del Suriname, tanto meno testimonianze e ricordi tramandati per generazioni dagli antichi schiavi o dai lavoratori delle piantagioni. La sua dissertazione, costruita su archivi e su decine di interviste approfondite, sarà la prima del genere in Olanda.

Baracca di 3 mq


Tra le ondate migratorie volontarie si annovera anche quella una comunità di ebrei proveniente da Spagna, Portogallo e Italia via Brasile che si stabilisce nella prima metà del 1600 nella capitale Torarica[1] e successivamente in una savana a una cinquantina di km dalla capitale odierna, diventata Paramaribo. La Joden Savanne, savana degli ebrei, sviluppa una economia di piantagione, con migliaia di schiavi; si costruiscono una scuola e una sinagoga in legno e ovviamente un cimitero (alcune tombe in rovina visibili tuttora). Erano frequenti gli scontri e gli attacchi delle comunità amerindie e le ribellioni degli schiavi, per cui il picco di 500 coloni ebrei con ben 9000 schiavi si riduce a poche decine di persone nel corso del ‘700, finché un incendio in seguito a una rivolta di schiavi distrugge l’insediamento nel 1832. Il sito archeologico è dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Mi ero ripromessa di visitarlo, dato che è facile meta in una sola giornata, ma un malinteso con l’agenzia turistica ha rovinato il programma. Rassegnata, ho anticipato la partenza.

Savana degli ebrei, sinagoga, stampa da Wikipedia

L’unica visita fatta autonomamente è stata quella al Fort Zeelandia, vicino al punto di attracco delle navi cariche di schiavi, ora museo della storia coloniale locale, con tanto di infermeria/farmacia al pianterreno e varie sale con reperti delle varie culture dei gruppi di schiavi ma anche testimonianze degli strumenti di costrizione. Credo che solo visitando ex colonie ci si renda pienamente conto dell’entità mostruosa della distruzione di continenti interi e della cancellazione di intere culture e popoli su cui si è fondata l’opulenza dell’Europa. Per me le esperienze più eloquenti sono stati i viaggi ripetuti in Sudamerica, oltre e più che il lavoro in Africa o in altri paesi.

L’escursione lungo il fiume Commewijne ha comportato la visita a un’ex piantagione di canna da zucchero e cotone a Fort Nieuw Amsterdam, trasformata in un museo di storia coloniale, ma con un approccio diverso da quello di Fort Zeelandia, più attento alla sequenza delle diverse ondate di importazione di schiavi e lavoratori contrattati. Purtroppo i pannelli in ambedue i musei sono in olandese, non esattamente una lingua internazionalmente conosciuta, con qualche targa in inglese. Il forte è stato anche un ospedale e una prigione. Nel pomeriggio si visita Fredericksdorp, antica piantagione diventata un hotel con piscina, che ha intorno qualche casetta e una scuola. 

Zoccoli giavanesi, Fort Zeelandia


La seconda escursione, una volta esclusa la riserva centrale, fornisce un assaggio all’acqua di rose dell’interno del paese. La meta è Anaula Nature Resort, un hotel con piscina e vari bungalows abbastanza comodi, in un’isoletta sul fiume Suriname. Vi si arriva dopo quasi tre ore di autobus da Paramaribo con sosta in un brutto villaggio/accampamento vicino Brownsberg e due ore di canoa a motore. Lungo la strada asfaltata noto diversi vuoti bruciacchiati nella foresta non densa che la costeggia, e alberi secchi. 

Bambini nel villaggio Nuova Aurora

Da Atjoni si attende il proprio turno per prendere la lunga canoa che risale il fiume tra foresta e villaggi, con l’emozione di piccole innocue rapide e aggiramento di notevoli massi di granito. Mi aspettavo grandi spruzzi ma si arriva sostanzialmente asciutti alla meta. Le capanne individuali erano comode e avevano anche una buona connessione internet, la guida si è prodigata durante le passeggiate in una foresta addomesticata, con larghi sentieri, e alberi altissimi.

Anaula Nature Resort
Interessante la visita al villaggio chiamato Nuova Aurora, con posto medico e scuola. Una signora ci ha mostrato il pane di farina di manioca, largo e piatto come il pane sardo karasau, e una piccola montagna di noci rotonde raccolte da un albero chiamato amana, dalle quali dopo laboriosa lavorazione facilitata da una macchina, ricavano un olio alimentare rossiccio. Unico campione di fauna notato: un bellissimo bruco e tre scimmie molto piccole. Avrei voluto vedere un albero chiamato krapa tree (nome scientifico carapa guianensis) in quanto qualche giorno prima avevo fatto un’intervista alla direttrice di una ONG locale che fornisce appoggio tecnico e servizi a vari gruppi e associazioni di donne, chiamata Women in business, che appoggiano anche la fabbricazione di cosmetici naturali. Uno dei prodotti in vendita in un loro negozio di Paramaribo è un olio ricavato dalle noci di questo albero, carapa guianensis, che serve (anche) come protezione contro morsi di insetti vari e zanzare. Ma di Krapa tree neanche l’ombra. Ho comperato una bottiglietta di quest’olio e lo farò analizzare in una erboteca specializzata.
Pane di farina di manioca, Nuova Aurora

Fiume Suriname, verso Atjoni




[1] Una ipotesi per l’etimologia del toponimo Torarica è che significasse Torah rica, in portoghese, ricca.